di Pierfranco Bruni
Il tempo corre inevitabilmente lungo i naufragi. I naufragi dell’io sono inevitabili quando le rughe della memoria cadano a pezzi sul gioco delle immagini. Abbiamo bisogno di immagini per non perdere ciò che potrebbe essere smarribile. Viviamo oltre la teologia per cercare il mistero della parola che si fa sacrificio del racconto salvifico.
Maria Zambrano ha disegnato il passaggio diretto dalla metafisica del mistero divino della grecità al mistero cristiano. Dentro questo passaggio non si vive un sottosuolo latino, ma è tutto un incastro di Mediterraneo geografico e filosofico. Se la letteratura non si fa osservanza creativa della filosofia resta nella cronaca. E di cronaca si muore.
La filosofia della metafisica si intreccia con i saperi della creatività letteraria ed artistica e mai con l’etico o con la morale. Dialoga con l’estetica. In questo tratteggio credo che il linguaggio mistico di San Paolo diventa un riferimento significativo che verrà ripreso da Agostino sia nelle Confessioni sia in quel suo navigare tra la Città e Dio.
Siamo dentro lo spazio di un pensare – pensiero che tutto nega alla leggerezza dell’essere e tutto varia in un incardinamento che è ontologico e speculare alla rappresentazione simbolica dei miti. La grecità resta mito. Senza il mito non si avrebbe neppure l’orizzonte di una filosofia di un vocabolario metaforico dell’incontro tra la spiritualità paolina e la “fenomenologia” agostiniana.
La letteratura è un incavo tra il navigare le vele di San Paolo e il tempo mitico e misericordioso di Agostino. Il Novecento ha assorbito il tempo delle discordie ed ha cercato però il tempo mistico della possibilità del viaggio salvifico oltre la morte. Da Ungaretti a Francesco Grisi si percorre il sacro lungo la strada dell’ambiguità cristiana di Diego Fabbri e la discussione robusta di Silone intorno al “cristiano senza chiesa”.
Siamo dei cristiani senza chiesa nel momento in cui la teologia si impone come salvifica consolazione. D’Annunzio si è incontrato con San Francesco e ha saputo magnificare il volto delle “vergini” delle rocce. Ha scavato nella impercettibile utopia il raccontare a futura memoria di Grisi. Nella sola uscita di sicurezza di Celestino V, Silone ha saputo affrontare le due ideologie della doppiezza: il comunismo e il cattolicesimo. Pavese ha praticato la sua iniziazione nel regno di Leucò trovandosi a cospetto con la carità e il perdono. Pirandello ha posto l’assurdo come consapevolezza alchemica del suo colloquiare con i personaggi.
C’è una letteratura del pensiero e una letteratura della insignificanza delle parole. Su un porto ci sono le ombre e il viandante nicciano. Su un angolo di sabbia insiste il relativismo e la leggerezza del nulla.
La religiosità è una antropologia della metafisica senza la quale è impensabile pensare il legame tra letteratura e metafisica.
D’Annunzio, infatti, si considerava una “anima nativamente religiosa”. La religiosità dannunziana non è la traduzione di cattolicità, ma di ontologia dello spirito e il senso del mistico è da lui vissuto nel Francesco di Assisi. I suoi naufragi non sono quelli di Ungaretti e della sua “terra promessa”.
Il concetto di “santità” diventa una metafora pregna di un senso metafisico, appunto, anche quando viene trasmesso attraverso la sua grande poesia. Poesia del cuore. In questo paesaggio di anime inquiete il tempo sembra diventare sempre una memoria racconta nel segno della indissolubile Visione.
L’ambiguità cattolica manzoniana non albeggia in D’Annunzio e tanto meno in Silone. Il confronto tra il pensiero e la parola è dato dalla profondità del religioso vocabolario tra il silenzio e la voce, tra la teologia e il mistero.
La letteratura e la filosofia muoiono nel momento in cui si pensa di farle diventare teologia. Sono indistruttibili quando, invece, si intrecciano tra il mistero e la poesia in un pensiero codificato nel pensato. La letteratura diventa divina se è mistero. Altrimenti è una teologia della ragione e perde il suo senso.
D’Annunzio e Pirandello sono i porti, in un unico viaggio, dell’estetica, del sublime e dell’assurdo. Se D’Annunzio è l’estetica e chiede al viaggio estetico di farsi sublime, Pirandello rievoca l’assurdo nella maschera dell’indefinibile del sublime. Restiamo, comunque, naufraghi per un’isola perduta in un tempo in cui la teologia è la rappresentazione del nulla o di una parola che conosce il relativismo.