di Stefania Romito
Buongiorno, amici! Oggi desidero presentarvi uno scrittore milanese che stimo molto per la sua altissima professionalità e competenza. Il suo nome è Alessandro Bastasi 🙂
Ciao Alessandro, benvenuto nel nostro gruppo! Posso chiederti cosa ti ha portato a scrivere il tuo primo romanzo “La fossa comune”, una vicenda ambientata in Russia?
Ho avuto la ventura di vivere in Russia tra il 1990 e tutto il 1993. Il periodo di passaggio dall’URSS alla Russia post-sovietica, con in mezzo, nell’agosto del 1991, il tentativo di golpe che ha poi portato alla fine di Gorbaciov e dell’Unione Sovietica. Puoi immaginare, per un uomo con la mia storia politica e culturale, cosa possono aver significato quegli avvenimenti di portata storica di cui sono stato spettatore in prima fila. Ogni giorno scrivevo appunti su quello che stava succedendo, per fissare anche sulla carta non solo la cronaca quotidiana ma anche sensazioni, emozioni, vita vissuta, mia e dei russi con cui ero in contatto. Finito il periodo russo, ho passato alcuni anni sempre all’estero tra Medio Oriente, India, Cina… Ma sempre avevo davanti agli occhi l’immagine drammatica dell’assalto delle truppe di Eltzin alla “Casa Bianca”, dove si erano asserragliati i suoi oppositori, in quella mattina di ottobre del 1993. Tornato in Italia, ho sentito sempre di più la necessità, un bisogno viscerale, di riflettere a fondo sugli eventi di quegli anni in Russia, e l’ho fatto attraverso un romanzo, un thriller politico che, dopo mille peripezie, è stato finalmente pubblicato nel 2008. Una nicchia di lettori appassionati l’ha molto apprezzato, questo mi ha spinto a continuare a scrivere, ed eccomi qua, con 5 romanzi pubblicati alle spalle.
In varie occasioni hai affermato di non essere un autore di gialli, bensì di noir. È così importante questa differenziazione? Cos’è il noir per te?
Sì, è una differenziazione importante. Nel giallo classico sullo sfondo si muovono personaggi che vivono in un ambiente strutturalmente sano, ordinato, “buono”, che viene disturbato da un delitto. Obiettivo di chi indaga è risolvere il caso e riportare l’ordine, e il focus è sul meccanismo con cui il bravo investigatore elimina il bubbone da un corpo sano. Così alla fine il lettore tira un respiro di sollievo e non ci pensa più. Nel noir il sistema nel quale si muovono i personaggi non è per definizione sano, è il mondo reale, con le sue bassezze, i suoi intrighi, dietro il quale si nascondono corruzione, amoralità, traffici di ogni tipo. Il mondo non è più diviso tra buoni e cattivi, il focus quindi non è tanto o non solo sulla scoperta di un colpevole, l’obiettivo è raccontare l’ambiente, le motivazioni di azioni delittuose, scoperchiare il lato nero presente nella società. Ed è questo che a me interessa “indagare”.
Quando scrivi, ti fai “guidare” dall’ispirazione del momento, o segui un metodo ben preciso?
I miei romanzi nascono di solito da un’idea ben precisa del “tema nero” sul quale voglio indagare (l’ipocrisia del perbenismo ne “La gabbia criminale”, il problema dell’immigrazione in “Città contro”, la scelta della lotta armata negli anni Settanta in “La scelta di Lazzaro”, ad esempio). Poi nella mia mente costruisco una trama, delineo i personaggi, penso alla struttura della storia e al linguaggio da usare. Solo allora, quando ho un’idea abbastanza precisa dell’insieme, mi metto a scrivere al computer, e da quel momento navigo un po’ a vista, secondo l’”ispirazione” del momento. Ma con ispirazione non intendo qualcosa che viene da chissà dove, non ho i personaggi che scalpitano autonomamente nella mia testa per farsi raccontare, niente di tutto questo, non ci credo all’autore che si mette lì e, come una stazione ricevente, scrive quello che entità non meglio precisate gli suggeriscono. Sono io che decido, sempre, in funzione di come si snoda la storia mentre la sto scrivendo.
Veniamo al tuo ultimo romanzo: “Era la Milano da bere”. Chi ti conosce sa che prediligi tematiche di carattere sociale. Cosa ti ha indotto a scrivere questo romanzo? Che cosa hai voluto raccontare?
Ho voluto raccontare le conseguenze sociali, umane, politiche di quella che negli anni Ottanta era nota come la “Milano da bere”, contrapposta alla Milano del decennio precedente che sbrigativamente si liquida come il decennio degli “anni di piombo”. La situazione di degrado politico, sociale, culturale che – dal mio punto di vista – viviamo attualmente affonda lì le sue radici, nell’egemonia crescente dell’individualismo, del fare da sé, del successo personale come obiettivo principale. Ricordo che quelli erano gli anni del trionfo di Reagan negli USA e della Thatcher in Gran Bretagna, secondo la quale “la società non esiste, esiste il singolo individuo”. L’espandersi delle TV commerciali e il loro contributo a diffondere questa ideologia hanno fatto il resto. Oggi di tutto questo esistono solo macerie, aggravate da una crisi economica senza precedenti. “Era la Milano da bere” è una storia che racconta proprio queste macerie, a partire dalle vicende di un manager in carriera, Massimo Gerosa, che di punto in bianco per motivi misteriosi viene licenziato e si trova privato di una status sociale faticosamente costruito, evento che lo porterà a una discesa nell’inferno.
In un romanzo di questo genere che cosa è più importante: i personaggi, l’ambientazione territoriale, il messaggio socio-politico?
Direi tutti e tre. Una storia di questo genere, per essere credibile, va calata in un territorio riconoscibile che l’autore deve conoscere e tratteggiare al meglio affinché il lettore si trovi quasi inconsapevolmente immerso in una realtà che gli sia familiare ma della quale ignori, o per quieto vivere finga di ignorare, i “lati oscuri”, la scoperta dei quali lo faccia sobbalzare sulla sedia e lo inquieti, gli dia materia per pensare, per riflettere. Il territorio dev’essere poi un tutt’uno con i personaggi, anche questi riconoscibili nell’universo umano del lettore, figure a tutto tondo, tridimensionali, non solo degli stereotipi, personaggi con la loro vita, i loro dubbi, i lati nascosti che ne influenzano i comportamenti, fino a determinarne le vicende. È da tutto questo amalgama che poi scaturisce il messaggio politico-sociale di un romanzo come “Era la Milano da bere”, non certo da proclami e da posizioni manichee, perché, come dicevo, in un noir il bene e il male si intrecciano e si confondono.
La tua scrittura, sul piano tecnico, è cambiata dal primo romanzo che hai scritto a quest’ultimo lavoro? E se sì, in che modo?
Direi di sì. All’inizio c’era il bisogno, la furia, di raccontare “quella” storia. Poi, nei romanzi successivi, ha prevalso sempre di più una maggiore attenzione alla scrittura, alle scelte strutturali e lessicali. Ad esempio, nell’ultimo libro volevo far vivere al lettore la solitudine che pervade la vita dei personaggi, per questo ho raccontato le loro vicende come fossero percorsi paralleli, che s’incontrano sì, ma quasi sfiorandosi, senza che si pongano mai in una relazione profonda, utilizzando per ciascuno la tecnica della terza persona immersa. Da questo quadro si stacca un po’ alla volta solo il personaggio di Cristina, la figlia di Massimo Gerosa, l’unico personaggio che susciti nel lettore un minimo di speranza nel futuro.
Questo è il tuo quinto romanzo. Ne hai qualcun altro pronto o in corso di scrittura?
Il sesto è già pronto e già consegnato all’editore. Dovrebbe uscire agli inizi del 2017. È un noir nel quale il tema di fondo sarà la frattura tra il mondo “di prima”, il mondo novecentesco, e quello di oggi, guardato da vari punti di vista. Un aspetto importante sarà ad esempio il ruolo dei media e la loro invadenza in ambiti che fino all’altro ieri non erano di loro competenza.
E’ stato un vero piacere, Alessandro, entrare nel tuo mondo e approfondire la tua conoscenza. Nei tuoi romanzi tratti sempre tematiche di grande interesse che inducono alla riflessione ed è per questo motivo che suggerisco a tutti di leggere i tuoi libri anche perché, come mi piace sempre sottolineare, è solo conoscendo il passato che si può comprendere meglio il presente. Grazie, quindi, per averci ricordato questo imprescindibile principio che per me rappresenta un vero e proprio postulato.
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