di Stefania Romito
Dopo le due raccolte di novelle, che possono rientrare nel genere fantastico, esce nel 1953, nella collana di Einaudi “I gettoni”, un’opera singolare e intensa che raccoglie il favore del pubblico e l’interesse della critica, anche se mostra una incertezza di fondo soprattutto riguardo il genere letterario cui inserire il testo.
Si tratta de “Il mare non bagna Napoli”, che già nella struttura narrativa si distingue per una forma inusitata, raccogliendo novelle insieme ad alcuni reportages – inchiesta su Napoli. La critica parla subito di opera neorealista. Ma il neorealismo di Annamaria Ortese è di natura tutta particolare.
Il libro è stato scritto in un periodo caratterizzato da cambiamenti di residenza, gravi preoccupazioni economiche con il solo sollievo dei pochi mesi trascorsi a Ivrea, ospite della famiglia Olivetti. La maggior parte dei brani dell’opera sono stati scritti a Napoli in casa di amici. La stesura è proseguita nel periodo di Ivrea per poi concludersi a Milano. Rispetto ai due volumi precedenti, si affronta una realtà crudele e tangibile descritta attraverso l’elemento socio-ambientale che balza subito in primo piano anche se sempre in un alone di sensazioni estremamente profonde e sottili.
La prima novella è sicuramente tra i racconti migliori della scrittrice. “Un paio di occhiali” è ambientato in uno dei più miseri ambienti della Napoli povera in cui vive la famiglia di Eugenia, la bimba protagonista del racconto. Alla fanciulla, molto miope, viene regalato dalla zia un paio di occhiali. Appena l’oculista le mette sul naso i due cerchietti, un mondo nuovo, colorato si apre dinanzi a Eugenia. Ma poi subentra il rovescio della medaglia: il quasi pentimento della zia, la disapprovazione della Marchesa protettrice della famiglia. Gli stessi occhiali non hanno più l’effetto magico della prima volta, ma addirittura fanno stare male la bambina.
La visione di Eugenia è racchiusa in un ambito di trasposizione lirica della realtà e non in un significato di carattere simbolico (la povertà del popolo contro la ricchezza di un mondo sconosciuto anche se vicinissimo).
“Interno familiare” rappresenta una sottile e dolente introspezione psicologica all’interno di una famiglia in cui si staglia la figura di Anastasia, una donna non più giovane che mantiene madre, zia, una sorella e due fratelli e che sembra essersi ormai adagiata entro una tranquilla e dignitosa esistenza piccolo-borghese. Anastasia viene improvvisamente sconvolta dalla notizia che un suo passato spasimante, Antonio, è rientrato in città dopo lunghi anni di navigazione e che pensa di sistemarsi a terra e di sposarsi. Inizia per Anastasia un periodo altalenante tra speranze e scoraggiamenti finchè arriva la notizia che Antonio si è fidanzato con un’altra donna e tutto crolla. La vita di Anastasia riprende con la sua piatta ma anche rassicurante monotonia.
Con “Oro a Forcella” prendono avvio i tipici racconti-inchiesta piuttosto frequenti nella narrativa della Ortese. Forcella è uno dei quartieri più popolari di Napoli, ma anche una delle zone più fittamente fornite di negozi di oreficeria e di gioielleria. Proprio questo contrasto rappresenta il filo conduttore del racconto che si dipana attraverso un brulichio variopinto di persone e di immagini, dal quale ogni tanto si illumina una visione, come attraverso lo scatto di una macchina fotografica.
La scena culminante è quella della grande Sala dei Pegni, un mondo a parte con leggi e norme proprie; un mondo mai vinto o rassegnato, ma vivo e vitale, pronto e combattivo, come dimostra l’episodio emblematico di Antonietta, con il suo fantomatico marito malato a Torino, ma è sufficiente la descrizione dell’ingresso improvviso di una farfalla in quel luogo gremito di umanità, per trasferire la narrazione nella tipica atmosfera lieve e irreale della Ortese.
Il brano “La città Involontaria” acuisce le caratteristiche dell’inchiesta giornalistica. La scrittrice descrive la sua visita al grande edificio che sorge tra il porto e i primi quartieri ai piedi del Vesuvio. L’edificio ha un nome storicamente suggestivo: è il III e IV Granili, adibito in passato a deposito di grano e successivamente diventato una sorta di città rifugio, dove vi sono ammassate le famiglie più miserabili, ma l’aspetto più sorprendente è che anche in questo estremo squallore finisce per emergere una forma di gerarchia. Risalendo dal livello della strada al secondo e al terzo piano comincia ad apparire qualche modesto suppellettile, un tavolo, delle sedie, ecc. L’umanità, che man mano la Ortese pone sotto i nostri occhi, è una sottospecie umana che forma un mondo a parte sino all’osceno tuttavia, anche in casi di un crudo e crudele neorealismo, il particolare taglio che la scrittrice dà al racconto ci introduce in una particolare trasfigurazione di fondo sganciata dalla pura e semplice realtà che le descrizioni prese alla lettera imporrebbero.
“Il silenzio della ragione” ha maggiormente suscitato il risentimento dei protagonisti e provocato le dure polemiche contro la scrittrice. La Ortese si era legata, nei primi anni del dopoguerra, a un gruppo di giovani intellettuali progressisti partenopei, tra cui Rea, La Capria e Pratolini. In seguito la Ortese lascia per un certo periodo il gruppo e si trasferisce lontano dalla città. Per un’inchiesta giornalistica dal titolo “Cosa fanno i giovani scrittori di Napoli” torna a Napoli per intervistare i suoi vecchi compagni. Scomparso il genuino entusiasmo del primo dopoguerra, il gruppo si è frantumato in una serie di individui ciascuno a caccia della propria affermazione personale. Stanno emergendo elementi nuovi: il tornaconto, l’invidia, l’aridità spirituale.
Questo costituisce uno dei punti-chiave del pensiero della Ortese: una sorta di purezza originaria che si avvia a un inevitabile processo di degradazione e di dissoluzione attraverso la diffusione dei concetti di utilità, di valore economico che finiscono per prevalere.
I ritratti che fa la Ortese dei vari componenti del gruppo sono di singolare interesse psicologico e umano. I ritratti dei personaggi possiedono tutti una straordinaria forza, ma ecco che il racconto assume una dimensione sempre più irreale, quasi magica.
L’intera raccolta di “Il mare non bagna Napoli” suscitò polemiche e risentimenti non ancora sopiti dopo tanti anni. Nel suo libro “L’armonia perduta”, La Capria ritorna sull’argomento. Emerge un sottile dissenso dalla visione di napoletanità data a suo tempo dalla Ortese, la cui enfasi e lacerante pena sono considerate come puro esempio di immaginazione rappresentativa e la cui carica interiore trascina al di là del vero e finisce per soggiogare e avvolgere l’osservatore suo malgrado.