di Stefania Romito
Buongiorno carissimi amici, sono molto felice di potervi presentare Diego Collaveri, uno scrittore livornese autore di numerosi romanzi per lo più appartenenti al genere noir. Diego Collaveri non è solo un bravissimo scrittore, lui per molti anni ha lavorato in ambito musicale collaborando per EMI Music. Nel 2001 si dedica alla sceneggiatura nella commedia teatrale per poi arrivare alla prima regia con cui vince il concorso Minimusical indetto da La Repubblica e Fandango. Successivamente segue un percorsodidattico/formativo con vari registi italiani, tra cui Paolo Virzì, studiando anche storia della cinematografia, mentre lavorava con alcune compagnie di musical. Diego ora è tra i docenti della Scuola di Scrittura Carver di Livorno con il corso di sceneggiatura e storia del cinema “Scrivere per il cinema”.
Ciao Diego, tu hai un curriculum molto ricco e variegato che va dalla musica, al cinema, al teatro, per arrivare poi all’editoria; quale è il filo conduttore del tuo percorso?
Sicuramente la scrittura, sotto diverse forme. Ho cominciato con musica e parole nelle canzoni e il concetto di comunione tra queste mi ha accompagnato dopo nelle altre esperienze. Il ritmo è alla base di qualsiasi narrazione, che sia visiva come nel cinema, che sia narrativa, come capacità di tener viva l’attenzione nello sviluppare un racconto, che sia metrica per la poesia. La musicalità e il ritmo incidono profondamente nella narrazione e l’ho capito imparando il montaggio video.
Il tuo modo di scrivere è spesso definito “visivo e cinematografico”; questo stile nasce dalla tua esperienza come sceneggiatore?
In parte credo sia dovuto a una mia spiccata attenzione per i dettagli, ma a questa si unisce il fatto che la sceneggiatura è una palestra per lo scrivere molto rigida, che ti porta a una visione più vasta della narrazione, sia per un discorso pratico che per un discorso espressivo. Parlando di praticità, uno script è un manuale che tutta la troupe dovrà seguire per realizzare un film (si parla di svariate decine di persone che devono comprendere allo stesso modo una singola visione), quindi uno sceneggiatore deve avere conoscenze di tutti i mestieri che compongono il cinema, dal momento che dovrà dare indicazioni a ognuno di questi reparti. Ecco allora che un dettaglio o un altro possono fare la differenza. Da un punto di vista espressivo invece, ci si concentra su di una scelta lessicale molto precisa, per sfruttare al meglio la capacità evocativa della parola restando al meglio nella sinteticità del costrutto; quindi se intendiamo la parola come unione di scritto(grafèma), suono(fonèma) e visivo(cinèma), nella sceneggiatura i primi due sono più che mai al servizio della terza. Ecco perché si intende la sceneggiatura come letteratura di confine, un tipo di scrittura che tende a essere un qualcosa in più, così la definisce Pasolini nel suo trattato sulla sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”.
Sì, perché la sceneggiatura richiede una struttura che possiamo definire “visuale” in quanto tende a “mostrare” piuttosto che “dire”. Tu sei anche docente di sceneggiatura e storia del cinema presso la Scuola Carver a Livorno; ti senti più a tuo agio nei panni del Diego autore o del Diego insegnante?
Diciamo che mi piacciono entrambi, anche se spesso è difficile scivolare dai panni dell’uno a quelli dell’altro. Sono due cose che mi danno moltissime soddisfazioni, soprattutto per un discorso di riscontro che percepisco nelle persone che ho di fronte. Come autore è ovvio che il consenso del pubblico ha sempre il suo perché, non voglio certo esser ipocrita e dire il contrario; al tempo stesso una classe interessata e curiosa, quasi affamata, è uno stimolo importante e un impegno che richiede davvero molta energia. Inoltre quella del cinema e della sceneggiatura era un aspetto della mia vita che avevo accantonato per mandare avanti altre cose, quindi è stato bello recuperarle e sentirle di nuovo così vive, anche se in modo diverso; senza contare che è stata l’occasione per tornare di nuovo alla regia, visto che a fine corso giriamo come saggio un cortometraggio scritto in classe e di cui gli allievi vanno poi a comporre la troupe per le riprese. Quello di questo anno ad esempio sta raccogliendo molti consensi a diversi festival, sintomo di bella sintonia di lavoro docente-studenti.
E’ appena stato pubblicato il tuo ultimo romanzo dal titolo “Il Segreto del Voltone – il commissario Botteghi e una vecchia storia livornese”, edito da Fratelli Frilli Editori; è il secondo volume della serie dedicata a questo personaggio, di nuovo ambientato nella tua Livorno. Quanto sono importanti le tue radici nelle storie che scrivi?
Importantissime, sia da un punto di vista di passato ed esperienze, che della città dove sono nato e vivo. Anche se sono ormai anni che scrivo noir, non avevo mai fatto il passo di una ambientazione così precisa e all’inizio ammetto che un po’ mi spaventava; poi ho cominciato a soffermarmi su alcuni scorci, su alcuni dettagli ed ho trovato una chiave di lettura nuova di posti e luoghi che forse davo troppo per scontati. Il risultato è stato “L’Odore Salmastro dei Fossi”, il primo volume dedicato al commissario Botteghi. Francamente non mi aspettavo che la città lo accogliesse così bene. Da un punto di vista personale, invece, cerco sempre di mettere qualcosa che conosco nei miei personaggi e nelle mie storie, o un ricordo personale o i tratti di persone che hanno attraversato la mia vita. Sicuramente da quel tocco di realtà in più che il lettore percepisce.
Come autore hai spaziato in diversi generi oltre al noir; hai pubblicato anche fantasy, fantascienza, horror, fiabe e umoristici. Che cosa ti spinge a cambiare così spesso “abito”?
Scrivere mi piace, non farei altro dalla mattina alla sera. Un caro amico mi dice sempre che ho “l’urgenza di scrivere”. Il noir è sicuramente il “vestito” che preferisco, per gusto personale, ma ho imparato soprattutto attraverso il cinema, di cui guardo qualsiasi cosa, che se si ama visceralmente un qualcosa non esiste un confine di genere. Le storie sono emozioni e le emozioni sono infinite, quindi le vivi attraverso qualsiasi tipo di racconto. Questo ovviamente da un punto di vista interiore. C’è poi sempre stata da parte mia la voglia di misurarmi con qualcosa di nuovo per capire i miei limiti e quindi crescere, provando a superarli, e i generi, con le loro peculiarità, te ne danno la possibilità. Capire le proprie capacità l’ho sempre considerato molto importante nei confronti dei settori artistici. La scrittura, più che mai a mio avviso, ha bisogno di rispetto, umiltà, conoscenza e dedizione.
Prima abbiamo parlato del commissario Botteghi e delle sue avventure, che si snodano per le vie di Livorno. Quanto conta in un noir la caratterizzazione metropolitana?
In quello che viene definito il noir moderno, l’ambientazione metropolitana è sicuramente un aspetto irrinunciabile ormai. Nel corso degli anni abbiamo assistito a una urbanizzazione sempre più precisa, tanto da poter dividere il paese in aree distinte (città o regioni) riconducibili a uno scrittore o a un gruppo di nomi ben definiti. A gusto mio personale, è sicuramente un modo per rendere più vera, palpabile una storia; aiuta il fruitore a sentirsela più dentro, portandolo a una maggiore empatia. L’aspetto che sicuramente trovo interessante è il territorio che diventa egli stesso protagonista, assumendo un peso rilevante all’interno della storia.
Parlando ancora de “Il Segreto del Voltone”, a differenza del precedente libro “L’Odore salmastro dei Fossi”, questa volta il tuo personaggio si trova immerso non solo nell’aspetto noir della città, ma anche in quello storico, con un parallelo tra l’indagine che si svolge ai giorni nostri e avvenimenti del periodo della liberazione e del dopoguerra. Da cosa è nata questa idea?
È nata da un racconto popolare che parla di alcuni cunicoli che passerebbero sotto Livorno come un labirinto, e di alcune zone misteriose che si presume esistano tra il manto stradale e il livello a cui passa l’acqua nei canali, o fossi come li chiamiamo qui. La storia è strettamente collegata alla città e al suo passato. Livorno ha vissuto il periodo della seconda guerra, della resistenza e della successiva ricostruzione politica e sociale, in modo molto forte. Ancora oggi le nuove generazioni portano nel proprio dna uno strascico di quel vissuto. Ho pensato che creare una storia di pura invenzione, intrecciata però con avvenimenti e fatti storici legati alla città, sarebbe stato un modo importante di ricordare una storia nostra che troppo spesso tendiamo a dimenticare, al tempo stesso rendendo omaggio a Livorno e a degli ideali che oggi sembrano lontani anni luce. Inoltre l’intreccio tra passato e presente ha dato al tutto un aspetto molto avventuroso. Scriverlo mi ha appassionato molto, spero nella stessa reazione da parte di chi lo leggerà.
Sono più che certa che i lettori si appassioneranno molto a questa storia così come agli altri precedenti romanzi. La tua esperienza di sceneggiatore ti permette di rappresentare visivamente i personaggi e le ambientazioni e di ricreare la stessa atmosfera di un film e questo è un aspetto davvero interessante. Ti ringraziamo, Diego, per averci condotto nel tuo appassionante mondo nel quale convivono ambiti artistici di grande fascino.
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