Oggi ho in grandissimo onore di intervistare un’ospite davvero straordinaria che ha scelto di condividere attraverso la scrittura la sua drammatica esperienza di vita pubblicando un libro molto toccante: “Il cielo a sbarre”. Il suo nome è Cesarina Ferruzzi.
Cesarina, sono felicissima di averti conosciuta e di poter parlare con te della tua toccante storia e del tuo meraviglioso libro nel quale racconti quei terribili 133 giorni di carcerazione preventiva trascorsi nel carcere di San Vittore. Ma prima di parlare di quel tragico evento, vorrei accennare brevemente a quella che era la tua vita prima di quel famoso giorno del 2009. Tu nasci in una tra le più importanti famiglie di imprenditori italiani. Ti laurei a pieni voti in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche e intraprendi una brillante carriera professionale costellata da numerosi successi. A te si deve la bonifica di rifiuti industriali effettuata in Libano tra il 1988 e il 1990 e lo smaltimento dei rifiuti tossici contenuti nelle navi Jolly Rosso, Karin B, Deep Sea Carrier. Come ricordi quel periodo?
Avevo circa 30 anni ed ero già una dirigente, donna. Avevo tanta voglia di arrivare, di affermarmi nel mondo dei cosiddetti “rifiuti”. Quale occasione migliore della bonifica in Libano? C’era la guerra, ma che importava? I dirigenti, uomini, si erano rifiutati di andare, troppo ancorati alle loro poltrone. Io, invece, impavida e con un pizzico di irresponsabilità, accettai. Fu un successo. I media ne parlarono a lungo, specie quando una nave piena di rifiuti riconfezionati e impacchettati tornò in Italia. Per me fu un escalation tale da offuscare l’ A.D. della società dove lavoravo. La mia nomea si propagò con una velocità supersonica. Chi non conosceva in Italia e in Europa ” Madame dechets “? (“dechets” traduzione in francese di “rifiuti”, dizione sicuramente più gentile e altisonante).
La tua brillante carriera prosegue con incarichi di rilievo quali quelli di Vice Presidente ANIDA, Associazione Nazionale Imprese Difesa Ambiente, e Director of Business Development per Green Holding fino ad arrivare all’esperienza con Ecoitalia presso la quale ricoprirai anche il ruolo di Consigliere Delegato. Qui in Italia non è così semplice per una donna rivestire incarichi di un certo rilievo. Che consigli potresti dare a quelle donne che volessero intraprendere il tuo stesso percorso professionale?
I tempi sono cambiati rispetto al 1983, ovvero quando cominciai la mia carriera nel settore ambientale. Ma che dire oggi? Qualche trasferenza? Per prima cosa il consiglio che posso dare è quello di accettare le sfide. Io ho cominciato questa attività con una borsa di studio di tre mesi rinunciando al cosiddetto “posto di lavoro sicuro”. Inoltre è necessario avere volontà, determinazione, entusiasmo e una buona dose di coraggio. E’ indispensabile avere sempre una visione completa di ogni argomento, quindi studiare, leggere e conoscere anche le materie strettamente correlate; nel mio caso, da una laurea più tecnica mi sono poi formata in marketing e vendite per poi passare anche ad alcuni aspetti legali ed amministrativi/bilancistici. Altri aspetti importanti sono: non arrendersi mai, usare l’intelligenza, trovare nuove iniziative quando il lavoro non c’è o ristagna o è troppo ripetitivo e, naturalmente, lavorare instancabilmente accogliendo solo energia positiva.
Un’esistenza ricca di soddisfazioni fino a quando un giorno di ottobre del 2009 accade un evento del tutto inaspettato destinato a cambiare per sempre la tua vita. A casa tua si presentano tre uomini in divisa che ti conducono presso la caserma della Guardia di Finanza dove ti viene comunicato il capo di imputazione e, successivamente, vieni condotta presso il carcere di San Vittore. Sono assolutamente consapevole di affrontare un momento particolarmente drammatico, ma mi piacerebbe che ci raccontassi quali sono state le emozioni di quel momento.
Le emozioni sono ben descritte nei capitoli iniziali del libro. Di quelle tre figure che suonarono il campanello di casa per portarmi a San Vittore, non ricordo alcun particolare del loro aspetto fisico. Io ero ammutolita, paralizzata, come se in quel momento la mia vita fosse terminata per sempre. Avvertivo un macigno dentro la testa, non riuscivo a ragionare, a connettere. Quando i portoni del carcere si chiusero, capii che mi stavano dividendo con violenza da tutta la mia vita, come ricevere un immane schiaffo che brucia l’anima e schianta il corpo.
Ti ritrovi, quindi, letteralmente sbattuta in carcere per un reato che non avevi commesso. Chi non ha mai vissuto un’esperienza di questo tipo non può neppure lontanamente immaginare cosa si possa provare a essere rinchiuse in una cella insieme ad altre detenute ed essere costretta di punto in bianco a rinunciare alla propria agiatezza e, cosa ben più grave, alla propria libertà. Come sei riuscita a non soccombere e a trovare la forza per reagire? Ad un certo punto scatta in te qualcosa che ti spinge a non concentrarti più soltanto su te stessa ma anche sulle vicende drammatiche delle altre detenute. Scopri di avere delle capacità che ignoravi. Ce ne vuoi parlare?
La disperazione iniziale non mi dava tregua. Confidavo nel poter uscire dopo l’interrogatorio di garanzia con il GIP. Accadde invece l’opposto. L’ avvocato mi disse “Ci vediamo domani….”. Precipitai immobile dentro quella realtà carceraria blindata in cui il terzo elemento, il rapporto umano, non esisteva. Dovevo capire quel mondo, interfacciarmi e non soccombere, non potevo rinchiudermi in me stessa, lì non era concesso. Mi iscrissi a tutti i corsi (facendo le domandine alla SVI, nickname carcerario indirizzato alla Signoria Vostra Illustrissima !!! Ma quale, chi? ) Giornalismo, perline, danza-musicale, danza-terapia, tessitura, progetto-trasgressione, ginnastica ….. All’inizio predominava la depersonalizzazione, vivendo circondata da tossicodipendenti, ladre, prostitute, zingare e omicide. Ad un certo punto quella sensazione divenne rassegnazione. Non dovevo essere annullata. Ero l’unico “colletto bianco”, diversa ma nello stesso tempo uguale a loro. In carcere non si mette in relazione la persona con la colpa che si sta espiando. Quando vidi, durante l’ora d’aria, la donna che stava di fronte alla mia cella che si disperava, piangendo e urlando ” Non c’e la faccio più, io l’ammazzo!”, le tesi una mano e le dissi: ” Posso aiutarti?” Quel gesto provocò prima uno sguardo stupito, poi un lungo abbraccio. Diventai una detenuta che consola un’altra detenuta. Da quel momento qualcosa cambiò in me. Sentivo di poter tornare a decidere e a recuperare quelle parti che mi avevano sempre contraddistinta: determinazione, energia, entusiasmo.
E’ proprio consolando le altre detenute che decidi essere arrivato il momento di fare qualcosa, di riprendere in mano la tua vita. E inizi a farlo mettendo in atto una serie di operazioni volte a migliorare le condizioni delle detenute. Ti attivi per far riaprire una palestra chiusa da anni, nel periodo natalizio organizzi un coro e inizi a lavorare nella biblioteca del carcere scrivendo lettere per le detenute analfabete. Qual è stata la molla che ti ha spinta a fare tutto questo?
Il carcere e’ un microcosmo variamente assortito, un “non luogo” ripiegato su se stesso. Per sopravvivere bisognava imparare un altro sistema di regole, infinite e vessatorie. Fu Don Alberto ad indicarmi la corretta via . “Vinci il male con il bene… converti il tuo cuore”. Come trovare il “bene” in un ambiente dove si incontrava solo la più profonda bruttura umana, la feccia, la disperazione, l’angoscia di ogni esistenza? Eppure, all’interno di quella tragica cornice, ho avuto la capacità di intercettare il bene da dare, di provare per la prima volta il senso disinteressato dell’amicizia e della condivisione della speranza.
Quando è stato il momento in cui hai pensato che su questa esperienza negativa avresti scritto un libro?
Quando credi di aver conosciuto il male, accade qualcosa di piu’ brutto che ti costringe a ridefinire il concetto. Ero uscita dal carcere, avevo ripreso faticosamente il lavoro. Era il mese di Novembre del 2010. Mi trovavo alla fiera di settore a Rimini, la più importante a livello nazionale. Ero timorosa di incontrare gli addetti, amici e nemici, clienti e fornitori. Di nuovo fra la gente, come se niente fosse accaduto. La “Regina ritrovata”, tutti mi cercavano, tutti mi accoglievano, tutti mi abbracciavano. Era sera, era tardi. Restai prigioniera entro le sbarre della recinzione dell’area fieristica, oltre le sbarre era parcheggiata la mia auto. Non trovavo l’uscita. Come fare? Non c’era nessuno, il telefono era scarico. Decisi di scavalcare. Mi arrampicai sulla cancellata, gli spuntoni potevano conficcarsi nelle gambe. Mi buttai dall’altra parte, verso la liberta’, agganciandomi agli spuntoni. Le dita, anulari destro e sinistro dove avevo degli anelli, esplosero. Un urlo si sprigionò dalle mie viscere con tutta la potenza ultra umana dello strazio che lo aveva provocato. Il cancello era definitivamente alle mie spalle. Penso che se non avessi dovuto attraversare tanto dolore, non avrei mai potuto sapere quanto bene potesse essere in me, nascosto nel profondo, assopito. Oggi sono sulla strada della resurrezione. Ho incontrato il volto sereno del bene, della sua condivisione e la voglia di donarlo agli altri.
“Il cielo a sbarre” contempla tutti questi aspetti. Dal timore di rimanere in quell’inferno ancora per molto tempo, alla speranza di poter uscire con un patteggiamento. Patteggiamento che non accogli favorevolmente perché ciò vorrebbe significare ammettere la propria colpa. Nel tuo caso, al danno si aggiunge anche la beffa. Ti va di spiegarci com’è andata?
Dopo tre mesi in carcere, il 19 gennaio del 2010 pensavo di poter uscire. L’avvocato, invece, mi annuncia che dovrò rimanere in carcere per altri tre mesi, fino al 19 aprile. Lui promette di presentare ricorso al GIP, il quale rigetta l’istanza. A questo punto l’avvocato presenta appello al Tribunale della Libertà e, successivamente, alla Suprema Corte di Cassazione. In questo girone infernale, in cui poter impazzire, l’avvocato mi propone il patteggiamento ammettendo quindi colpe per reati non miei. Pareva l’unico modo per uscire subito, per riavere la mia libertà. Mi sentivo soffocare, la luce della fine del tunnel continuava ad allontanarsi. Cedo, non ho altre soluzioni. Il patteggiamento implicherà l’interdizione da qualsiasi carica professionale per cinque anni, l’interruzione della mia carriera lavorativa. L’iter burocratico del patteggiamento si concluderà solo il 25 febbraio, ma il 17 febbraio (lo saprò solo in seguito) arriva inaspettatamente la Sentenza della Cassazione in seguito al ricorso presentato subito dopo il mio arresto (che avvenne il 20 ottobre del 2009) rigettato inizialmente dal Tribunale del Riesame. La situazione legale si fa sempre più astrusa, le questioni si intrecciano, si imbrogliano. La Sentenza della Cassazione annulla la carcerazione preventiva. Mi vengono concessi gli arresti domiciliari a partire dal 1 marzo. Nel frattempo la richiesta di patteggiamento prosegue il suo iter che si concluderà solo il 14 aprile del 2010. Se non avessi fatto nulla avrei concluso la mia carcerazione preventiva il 19 aprile. Ho perso il sonno a studiare ricorsi e sentenze, ho subito delusioni e tentato innumerevoli strategie, ho richiesto il patteggiamento confessando reati non miei per riacquistare subito la mia libertà, per ottenere invece solo 5 giorni di libertà in più . Oltre il danno, la beffa.
Quale messaggio intendi trasmettere con questo tuo libro?
Intendo trasmettere messaggi a tutte le donne, in particolare: forza, dignità, rinascita. Non arrendersi mai anche quando tutto sembra precipitare, alzare la testa, prendere il coraggio e l’energia e andare avanti. Ricevo molti messaggi di persone che mi ringraziano per gli insegnamenti e per i sentimenti trasmessi. L’ultimo è di questa mattina ed è il seguente: “Buongiorno Cesarina (…) Ho conosciuto il suo libro e la sua storia (…) Lo scorso giovedì, durante uno dei nostri incontri di gruppo, abbiamo letto un passo del suo libro. La sua storia rappresenta una metafora per tutte le donne del gruppo per identificarsi e rappresentare quello che oggi è la loro condizione di donne e pazienti. A noi tutte farebbe piacere conoscerla e avere la sua testimonianza in uno dei nostri incontri. Per noi tutte sarebbe un arricchimento e nutrimento di energia positiva. La nostra associazione raggruppa donne che hanno subito un intervento al seno in seguito ad una diagnosi di cancro. Grazie della sua testimonianza, la sua forza e il coraggio di esser donna; firmato: Fabiana.
Cito una tua meravigliosa definizione: “In carcere è come se il mondo esterno non esistesse, come se si vivesse in fondo a un pozzo senza ricordare com’è la luce”. Come hai fatto a non lasciarti sopraffare dall’oscurità?
A questa domanda ho già risposto in parte. Vorrei aggiungere e ripetere: la volontà indomabile di andare avanti, questa volta nutrita dai sentimenti e dall’amore e non dall’arrivismo sfrenato. Amore da donare… a chi ne aveva tanto bisogno. Un invito a spezzare le sbarre che troppo spesso costruiamo intorno al nostro essere.
Cesarina è senza dubbio una persona molto speciale. Non credo di sbagliare affermando che la maggior parte di noi sarebbe di sicuro uscita devastata da un’esperienza simile. Lei ne è invece uscita rafforzata. La capacità di trasformare ciò che di brutto ci piove addosso in un’occasione per riscoprirsi e, in un certo senso, migliorarsi è una capacità che hanno davvero in pochi.
Ringrazio ancora una volta Cesarina per aver voluto condividere con noi questa drammatica esperienza di vita, che ha saputo raccontare in maniera davvero molto toccante in questo suo meraviglioso libro, insegnandoci che anche quando si pensa di aver perso tutto bisogna sempre tener viva dentro di noi quella forza che ci spinge a ricordare che oltre quel pozzo nero la luce c’è e può brillare anche più forte, se solo noi lo vogliamo 🙂
(Questa pubblicazione è di proprietà del Blog, ne è vietata ogni riproduzione senza l’autorizzazione del titolare. Se sei interessato a programmare un’intervista personalizzata scrivi a: romisghostwriter@gmail.com. Diventa anche tu follower del Blog!)