di VINCENZO NAPOLILLO
Stefania Romito è una scrittrice a pieno titolo e il suo nuovo libro, “Il buio dell’alba” (Libro/Mania De Agostini), è un thriller fuori dall’ordinario, che stimola fortemente lo stato d’animo del lettore o fruitore e lo induce a riflettere su una lunga scia di sangue o, almeno, su due raggelanti avvenimenti: l’efferata morte di Mauro De Rosa, sgozzato da Uccio, dopo che gli ha sottratto il motorino, e l’orrenda strage di ottantotto valdesi di Calabria, scannati come agnelli «castrati», sulla gradinata della chiesa parrocchiale di San Francesco di Paola a Montalto Uffugo.
Tonino, il complice di Uccio, viene condannato a sei mesi di lavori socialmente utili e messo ad accudire il vecchio professore Alfonso Cascarano, ammalato di cuore, la cui vita non era stata tutta «rose e fiori» (p. 57. L’amore, egli dice, «è solo una disgrazia. Fa soffrire e basta (p. 185). Ma poi deve ammettere che è la vita «a punirci quando sbagliamo» (p. 185).
Sul filo di una approfondita conoscenza della società del secolo XVI e di quella di fine Novecento, la prosa di Stefania Romito coglie nel segno richiamando alla memoria la professione protestante avviata da Martin Lutero e la soluzione radicale e tragica della Chiesa di Roma d’indagare e di punire, attraverso il tribunale dell’inquisizione, gli eretici che avevano scelto di condividere teorie contrarie all’ortodossia cattolica.
Tocca a Maria, l’incantevole ex compagna di classe di Tonino, spiegare con parole semplici ed efficaci le differenze dottrinali sancite dal Concilio di Trento, prima di tutte l’eretica giustificazione per la sola fede, che rendeva, in un certo senso, gli uomini più liberi dal potere della Chiesa romana, la quale esercitava un controllo totale sui credenti (p. 73). Scoppiò allora lo scandalo delle indulgenze, che garantivano un posto in Paradiso a chi versava una somma di denaro per la costruzione della chiesa di San Pietro in Roma.
I valdesi, che nel sinodo di Chanforan (1532) si erano uniti ai calvinisti, ascoltarono nella Calabria Citra la predicazione di Gian Luigi Pascale, che diffuse nelle terre del feudatario Salvatore Spinelli la dottrina di Calvino della doppia predestinazione: solo agli eletti, predestinati all’eternità, è concessa la grazia divina. Ma il cardinale Michele Ghislieri, futuro papa, aveva dichiarato che l’eresia «è una tale infermità che non così facilmente né in così breve tempo si risana. E chi vuol risanarla convien trovar bene la radice». Molti eretici di San Sisto e di Guardia (Piemontese) furono scovati e uccisi. L’episodio più noto e atroce ebbe luogo l’11 giugno 1561 a Montalto Uffugo.*
Stefania Romito si dedica ad esplorare con eccezionale penetrazione sia un fitto intreccio di rapporti e sentimenti che sta alla base dell’ambiente calabrese e lucano e di un modo di vivere e di confessare la fede, sia l’orrido comportamento del braccio secolare, inquadrato nella «cornice» storica e al di fuori delle scorie della polemica e dell’oscurantismo della cultura libresca.
Nel racconto, in cui Romito dà la misura delle sue alte qualità d’artista, s’inserisce l’amicizia senza ombre di Tonino con Maria, della cui bellezza e sensualità egli era del tutto rapito. È lei che gli fa comprendere che l’amore è una fiamma che non si spegne; ed è il prof. Alfonso Cascarano a dire a Tonino d’avere sbagliato in amore e che bisogna vivere al meglio ogni momento dell’esistenza, «assaporandone ogni istante come se fosse l’ultimo. Solo così potremo dire di aver vissuto» (p. 185).
I libri “insegnano molto” (p. 23) e danno conoscenze utili, una visione della società ricondotta, al di fuori degli intrighi e dei drammi, alle sue fondamentali ragioni umane, e una grande e istruttiva lezione di vita. Mentre la cugina di Maria conduce indagini per la tesi di laurea, un documento, trovato nella biblioteca del castello normanno di Rapolano, ristrutturato poi per ordine dell’imperatore Federico II di Svevia, e un atto notarile del 10 gennaio 1998, preso da Tonino sotto la sella del motorino rubato, vincono il buio dei fattacci di cronaca e smascherano il mandante di numerosi omicidi, che fanno rabbrividire e sussultare di paura.
La trama del romanzo ha i connotati di esperienze dolorose e ributtanti, ma «a volte, come dichiara Romito, è proprio nella oscurità più totale che si cela la più abbagliante delle luci».
La narrazione procede secondo l’idea della letteratura che tende all’affermazione di libertà invincibili nella logica della storia che aspira a un nuovo corso. Essa ha raggiunto lo straordinario equilibrio tra i fatti accertati e l’attività della fantasia, tra l’eretico passato intrecciato alla follia del presente. È chiaro che quando si parla di Stefania Romito, valente scrittrice perché è sotto gli occhi di tutti la felice combinazione dell’attività storiografica con quella letteraria priva di ridondanza espressiva e mancante della cornice «di pura facciata» (p. 186), bisogna riconoscere a tutto suo merito che, oltre a fornire una lettura agile e ricca di rapidità inventiva, mette a fuoco il senso religioso attivo della vita e la gelosa difesa dei valori di libertà e di verità da salvare.
*[ Nella lettera di Ludovico d’Appiano (12 giugno 1561), testimone oculare dell’eccidio di Montalto, si legge: «Hoggi a buon hora si è incominciato a far l’horrenda justitia di questi luterani, che solo in pensarvi è spaventevole, che così sono questi tali come una morte di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa e veniva il boia et li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi e poi lo menava in un luogo spatioso, poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare e con un coltello gli tagliava la gola et lo lasciava così; dipoi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello insanguinato ritornava a pigliar l’altro, e faceva il simile; ha seguito quest’ordine fino al n. di 88, il qual spettacolo quanto sia stato compassionevole, lo lascio pensare et considerare a voi. I vecchi vanno a morire allegri, et li giovani vanno più impauriti; si è dato ordine e già sono qui le carra, et tutti si squarteranno e si metteranno di mano in mano per tutta la strada che fa il procaccia fino ai confini della Calabria» ].