di PIERFRANCO BRUNI
“Lingua Mater” è una metafora all’interno di un linguaggio che diventa vocabolario della propria vita. L’ultimo testo di Angelo Gaccione si sofferma su un viaggio a ritroso. Quel viaggio proustiano in cui ogni sapore, colore, ogni piccolo ricordo portano un segno tangibile di una rimembranza leopardiana che custodisce al suo interno la visione della madre. Madre come paese. Un legame tra madre e paese che trova la sua sublimazione nella lingua, ovvero nel dialetto. Angelo Gaccione si serve, infatti, del dialetto per scavare all’interno di un processo esistenziale, radicato nella cultura. In quella cultura che non ha mai dimenticato. Calabrese di nascita, vive a Milano in una atmosfera completamente diversa da quella originaria. Nel concetto di diaspora, che deve aver vissuto, non c’è solo l’andar via dal proprio paese, dalla famiglia. C’è il riportare nel luogo dove si vive, il senso di ciò che è stato nel preciso momento in cui si scrive.
In questo libro di 76 pagine è presente un articolato modello labirintico in cui le voci del destino diventano le voci della madre. La lingua diventa madre. Dentro la metafora della madre-lingua o lingua-madre, c’è realmente il ricordo della madre. In questo vissuto si ascoltano le nostalgie, le assenze. Si scardina quel vivere quotidiano che è dentro una città che sembra appartenergli e che, per molti aspetti, gli appartiene. Un ricordo che lo conduce costantemente al tessuto umano delle sue radici, in uno scavare nella parola. Come avrebbe detto Ungaretti, il poeta scava la parola per riportare il proprio “essere stato” sul filo dell’acqua e dell’orizzonte. Ed è in quell’essere stato che si rinvengono le dimensioni di una realtà che è diventata identità. Un legame, quello tra Milano e la Calabria, che per Angelo Gaccione diventa fondamentale. Andare via dalla Calabria, per una città internazionale quale è Milano, costituisce per lui un punto di contatto tra le culture popolari, contadine, nelle quali si è trovato a vivere e le culture che si manifestano in una città come Milano. Tutto ciò lo conduce costantemente a quelle origini che sono il senso del paesaggio, della natura. Angelo Gaccione vive il paesaggio che quello della sua Calabria. Un paesaggio che vive dentro la mente, all’interno dei sentimenti che diventano percezione di un essere e che si trasformano in poesia.
La poesia è questo saper decifrare inconsapevolmente il senso del perduto. Un senso del perduto che lo porta a una visione in cui il senso della pietà calabra diventa anche un confrontarsi con le realtà che la Calabria ha vissuto. Ho parlato di diaspora, ma il discorso più pertinente al quale far riferimento è quello dell’emigrazione. “Essere emigrato” è una condizione che appartiene a una visione quasi mosaicizzata del “sentirsi estraneo”, all’interno di una città che accoglie. Queste ombre che circolano dentro la parola, fanno di Angelo Gaccione un poeta che ha saputo scavare nella parola come se fosse “impermeabile”, dal punto di vista di un vocabolario del linguaggio. Impermeabile e penetrante nella metafora e nella metafisica.
Angelo Gaccione si porta dentro anche un impegno civile. Chi lascia la propria terra, per andare altrove, ha questo impegno civile cucito sulla pelle. Lo vive e lo respira costantemente. In quel vento che sente respirare tra i navigli e la complessità della città, ci sono gli echi di una Calabria, di un mare, di una terra. Una Calabria che viene considerata, nella metafora generale, l’isola della propria anima. Credo che Angelo Gaccione abbia compiuto un vero e proprio viaggio verso quel sentire proustiano che non è soltanto un tempo perduto, ma che grazie alla poesia, diventa un tempo ritrovato.
Il linguaggio, la lingua, il dialetto calabrese diventano un linguaggio ritrovato che conduce l’autore verso le sponde del vivere, verso le sponde di una esistenza in cui, il dato dell’impegno al quale facevo riferimento, è sempre più un essere dentro una sensibilità marcata che si ha verso le cosiddette cose. Una sensibilità vissuta dentro l’anima, il cuore. Il suo capire l’essere uomo e poeta. Qui “essere uomo” ed “essere poeta” è la stessa cosa. Una empatia forte che fa del dialetto il punto centrale di una identità e di una eredità.
Questa “Lingua Mater” è dentro la mater dulcissima alla quale siamo tutti legati che porta il nome di Salvatore Quasimodo. Una visione in cui la realtà supera il senso del mistero, perché potrebbe subentrare la biografia, la storia. Ma la poesia non racconta la storia e neanche la biografia. La poesia metaforizza tutto. Qui, in “Lingua Mater”, la metafora è la profondità dell’anima.